Negli ultimi vent’anni, la più celebre teorica critica al mondo — la studiosa che ha definito il campo degli studi postcoloniali — ha vissuto una radicale riorientazione del proprio pensiero. Trovando ormai insufficienti le nette polarità tra tradizione e modernità, coloniale e postcoloniale per interpretare il presente globalizzato, si rivolge altrove per sostenere la sua tesi centrale: l’educazione estetica è l’ultimo strumento rimasto per realizzare giustizia globale e democrazia.
Il rifiuto di Spivak di sacrificare l’etico in nome dell’estetico, o l’estetico nel confronto con il politico, rende il suo compito particolarmente arduo. Nel confrontarsi con queste relazioni complesse, riscrive il concetto di gioco di Friedrich Schiller come doppio vincolo (double bind), leggendo Gregory Bateson insieme a Gramsci, e negoziando Kant in dialogo con il suo maestro Paul de Man. Una delle questioni che Spivak solleva è questa: siamo davvero pronti a rinunciare alla ricchezza delle lingue del mondo in nome della comunicazione globale? “Anche una buona globalizzazione (il sogno fallito del socialismo) richiede l’uniformità, che la diversità delle lingue madri deve necessariamente sfidare,” scrive Spivak. “La torre di Babele è il nostro rifugio.”
Attraverso saggi su teoria, traduzione, marxismo, genere, letteratura mondiale e su autori come Assia Djebar, J. M. Coetzee e Rabindranath Tagore, Spivak sostiene l’urgenza sociale delle discipline umanistiche e rinnova la difesa degli studi letterari, oggi imprigionati nell’università aziendalizzata. “Forse,” scrive, “la letteratura può ancora fare qualcosa.”